AUTOSTIMA, AUTO-COMPASSIONE E BENESSERE

Quello che segue è un riassunto di un capitolo di un libro molto molto interessante che sto leggendo, scritto da Kristine Neff, esperta di “Self-compassion”, una visione molto accattivante di come potremmo trarre molti vantaggi semplicemente dall’essere più compassionevoli con noi stessi. In questo articolo mi concentrerò sulla questione dell’autostima, concetto che sembra davvero centrale per il benessere mentale delle persone, nella società occidentale.

Spero che questa visione della questione possa porvi dubbi e domande, che sono l’anticamera di nuove scoperte, sia personali che non.

L’importanza dell’autostima

Nella nostra società occidentale, essere sani psichicamente comporta l’avere un’alta autostima. In molti Paesi sono stati creati programmi scolastici per aumentare l’autostima dei bambini e dei ragazzi, perché questo viene considerato essenziale per essere un adulto felice e realizzato.

Nei decenni passati molti studi sono stati pubblicati sull’argomento, ma alcuni report americani iniziano a mostrare che queste iniziative mirate ad aumentare l’autostima non sono state così efficaci come si sperava.

Non ci sono differenze significative, ad esempio, nel comportamento delle persone con alta e bassa autostima rispetto all’essere bulli e all’avere comportamenti socialmente indesiderabili.

Ce lo aspettavamo? Forse no.

Ma che cos’è davvero l’autostima?

Il centro dell’autostima è una valutazione del proprio valore, un giudizio sulla propria bravura e validità. Essa deriva dal pensare che noi siamo bravi in qualcosa che reputiamo di grande valore.

Lo psicologo William James individuò due modalità per aumentare l’autostima.

La prima è dare valore alle cose in cui siamo bravi, e svalutare quelle in cui non siamo bravi. Questo implica un possibile problema: sminuiamo l’importanza di valide abilità solo perché ci fa stare meglio con noi stessi. In altri termini, per raggiungere alta autostima a breve termine (es. gioco bene a calcio e quindi concentro tutta l’energia sul calcio per sentirmi efficace) trascuriamo il nostro potenziale sviluppo a lungo termine (es. non studio più matematica e le altre materie e perdo così l’opportunità di avere una buona occupazione in futuro).

L’altro modo per aumentare l’autostima è aumentare le nostre competenze in quelle aree che noi reputiamo importanti. Ad esempio, cerco di dimagrire per entrare nella taglia 40 perché il mio obiettivo è diventare una modella. Il rischio qui è che il mio corpo non sia fatto per essere una taglia 40, e quindi mi sentirò frustrata e avvilita quando magari starei molto meglio nella mia taglia 44, e sarei più felice.

Il sé specchio

Il sociologo Horton Cooley propose che il senso del valore di sé deriva dalle nostre percezioni di come appariamo agli altri. Se ci sentiamo giudicati positivamente, staremo bene con noi stessi, e viceversa. L’autostima quindi deriva non solo dal nostro auto-giudizio ma anche dal giudizio percepito degli altri. E le ricerche dimostrano che ci interessa più il giudizio degli estranei che quello di amici e familiari (ovviamente, perché questi ultimi ci vogliono bene e non li crediamo imparziali).

Si evince come la nostra autostima sia appesa a un filo molto sottile… se dobbiamo affidarci ai giudizi di perfetti sconosciuti!

Con altre ricerche si è scoperto che le persone con alta autostima sono più convinte della propria popolarità, mentre quelle con bassa autostima credono di non piacere molto agli altri, ma in realtà i due gruppi sono apprezzati in egual misura. La differenza è quindi nella nostra percezione. Abbiamo alta autostima non perché siamo persone migliori, ma solo perché pensiamo di esserlo.

Da qui al narcisismo il passo è breve…

I narcisisti hanno un’alta autostima e sono felici la maggior parte del tempo, ma in realtà sono prigionieri di una trappola sociale. Il loro modo di essere, spesso, fa scappare gli altri, anziché conquistarli. Magari inizialmente gli altri sono attratti dalla sicurezza del narcisista, ma alla fine scappano dalla sua spavalderia.

I narcisisti non risultano molto simpatici, e le loro relazioni finiscono male perché con persone del genere è difficile sentirsi compresi e accolti, visto che sono totalmente presi da loro stessi.

I narcisisti non hanno una bassa autostima, come alcuni credono, e questo è stato dimostrato da alcune ricerche. Si sentono bene finché ricevono ammirazione e attenzione, ma i problemi insorgono quando la loro posizione di superiorità inizia a barcollare. Questo provoca rabbia e disprezzo. La rabbia narcisistica sposta l’attenzione negativa dal sé all’altro, che può essere poi incolpato di tutte le emozioni negative sperimentate.

Autostima sana e non sana

Narcisisti a parte, l’alta autostima non è negativa, perché è ovviamente meglio sentirsi validi piuttosto che sentirsi inutili e insignificanti. Però ci sono due tipi di percorso per arrivare ad un’alta autostima, uno sano (es. avere una famiglia che ti sostiene e lavorare sodo per raggiungere gli obiettivi) e uno non sano (es. gonfiare il proprio ego sminuendo gli altri).

Le ricerche che misurano l’autostima, ahimé, non distinguono l’autostima sana da quella non sana.

Così come i programmi nelle scuole che mirano ad aumentare l’autostima nei ragazzi non sono sempre portatori di “sana” autostima.

In generale, questi programmi gonfiano l’ego in modo esagerato, utilizzando un elogio indiscriminato. Questo può ostacolare la capacità dei ragazzi di vedere chiaramente se stessi e i propri limiti, portando al narcisismo. E non va bene.

Ma se ci pensiamo bene, non è ottimale neanche fare il contrario, e cioè far sì che venga usata l’autostima in modo condizionato, cioè che i ragazzi si sentano bene con loro stessi quando hanno successo e male quando falliscono.

Come si risolve questo dilemma?

Il valore di sé contingente

Questo termine viene usato per riferirsi ad un senso di autostima che dipende dal successo o dal fallimento, dall’approvazione o dalla disapprovazione. Più il senso complessivo di valore di sé è dipendente dal successo in certi settori, più ci sentiremo delusi se falliamo proprio in quei settori.

Avere un’autostima contingente vuol dire avere uno stato d’animo che oscilla dall’esaltazione del momento in cui facciamo bene le cose alla devastazione di quando le facciamo male.

Questo è legato al fatto che le persone che eccellono in un dato settore sono le più vulnerabili alle delusioni. Più sali in alto, più ti fai male quando cadi.

L’autostima contingente provoca anche dipendenza, perché quando le cose vanno bene si prova uno stato di benessere che vogliamo continuare a provare. Questo può anche far perdere di vista il piacere dell’atto in sé (es. correre) perché si pensa solo al vincere. Invece di correre per il piacere di farlo, corro per cercare di vincere e avere il “premio” dei provare un’alta autostima.

Pensieri e giudizi

Essendo umani, è possibile che a volte confondiamo chi siamo veramente con i pensieri e le valutazioni su noi stessi. Il nostro concetto di Sé non è il nostro vero Sé, ma è solo una rappresentazione dei nostri pensieri e comportamenti abituali, a volte accurata e a volte molto distante dalla realtà. Eppure noi ci identifichiamo con questo nostro ritratto di noi stessi, al punto da considerarlo vitale.

Pensiamo che l’autostima ci salverà dal fallimento, ma la realtà è una sola: a volte mostriamo buone qualità e a volte mostriamo cattive qualità. Qualche volta agiamo in modo costruttivo, altre volte in modo dannoso. Ma queste qualità o comportamenti non definiscono chi siamo.

Ci sono innumerevoli variabili che influenzano i nostri comportamenti: il tempo, le circostanze, gli stati d’animo, le situazioni. Cerchiamo di riassumere la nostra complessa esperienza vissuta in termini di valutazioni semplicistiche del nostro valore, ma in realtà questi giudizi sono solo pensieri.

Abbiamo bisogno di vederci superiori agli altri per stare bene, e questo ci fa sentire separati dagli altri, e ci fa perdere di vista che in realtà siamo tutti interconnessi. Ecco che così nascono sentimenti di isolamento e insicurezza. Siamo sicuri che ne valga la pena?

Auto-compassione o autostima?

È possibile un mondo dove i pensieri positivi su di sé provengono dal nostro cuore piuttosto che dalla nostra mente (e dai nostri risultati)?

L’auto-compassione non cerca di definire il nostro valore, non è un’etichetta, un giudizio o una valutazione, ma è un modo di relazionarci al mistero di chi siamo.

Accettiamo che non possiamo essere sempre gradevoli e superiori agli altri, ma che ognuno di noi, ogni essere umano, ha punti di forza e di debolezza. I nostri successi vanno e vengono, e soprattutto non sono queste esperienze a definire il nostro valore.

Queste esperienze dimostrano soltanto che siamo vivi, stiamo vivendo la nostra vita facendo a volte errori e a volte scelte vincenti.

L’autostima ci richiede di sentirci speciali e al di sopra degli altri, o di raggiungere traguardi ideali. L’auto-compassione produce sentimenti positivi che derivano dal prenderci cura di noi stessi, esseri fragili e imperfetti, come ogni essere umano, e comunque meravigliosi così come siamo. Non ci si sente uno contro l’altro ma tutti interconnessi.

La cosa bella è che i sentimenti positivi dell’auto-compassione non se ne vanno quando sbagliamo o le cose vanno male, ma entrano in gioco proprio quando l’autostima ci abbandona e ci sentiamo inadeguati per i nostri “fallimenti”.

L’auto-compassione è amarsi e accettarsi così come si è, con aspetti di valore e altri di debolezza, ma come esseri unici e speciali proprio perché umani.

Questa visione sembra offrire gli stessi vantaggi dell’alta autostima senza portare con sé gli aspetti negativi.

Essere auto-compassionevole comporta anche avere una maggiore autostima, ovviamente, e con valori di autostima maggiormente stabili e costanti, perché essa non oscilla in base ai risultati che otteniamo.

Le persone auto-compassionevoli sono maggiormente in grado di accettare chi sono a prescindere dal grado di apprezzamento che ricevono dagli altri.

Infine, l’auto-compassione è completamente non associata al narcisismo.

La felicità

Tutti noi abbiamo voglia, diritto e bisogno di sperimentare la felicità che deriva dal sentirci bene nella nostra pelle e con le nostre capacità e coi nostri limiti. La vera felicità, quella che può davvero durare, viene sperimentata meglio quando ci sentiamo interconnessi agli altri, invece che separati e gli uni contro gli altri, in una perpetua guerra a “chi fa meglio”.

L’auto-compassione ci regala la serenità del sentirci sempre bene con noi stessi, anche quando sbagliamo. Non è questa la vera felicità che tutti cerchiamo?

Bibliografia: “La self-compassion. Il potere dell’essere gentili con se stessi”, K. Neff, FrancoAngeli


Foto di Dimitris Vetsikas da Pixabay
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